La «McDonaldizzazione» del pensiero: riflessioni sulla globalizzazione

di Andrej Scilla, Classe 5A Liceo Economico Sociale “G. Pascoli” – Firenze
Immagine di copertina di Marco Rocchi per dis.forme

Prendiamo spunto dal dibattito che si è acceso in questi giorni sulla possibile destinazione d’uso dell’area dell’ex cementificio di San Francesco di Pelago ad area per un centro commerciale, per proporvi una riflessione che fa capire come la “McDonaldizzazione”, nel senso della standardizzazione del pensiero, venga da lontano. Come hamburger e patatine fritte sono diventati un piatto semplice, veloce ed economico da preparare e consumare, così spesso alcune scelte politiche seguono questo principio e denotano una mancanza di coraggio e di lunghe visioni.

Il testo che segue è il risultato di una esercitazione per l’esame di stato ai Licei Economico Sociale che parte da un’analisi di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 e Senior Vice President e Chief Economist (1997 – 2000) presso la Banca Mondiale, sugli effetti positivi e negativi del fenomeno della globalizzazione.

Verso un modello economico globale

La globalizzazione è un importante fenomeno che ha interessato e sta interessando tutti gli ambiti del sapere e dell’agire umano. Si tratta di un insieme di processi interconnessi, figli di diversi eventi accaduti nella storia dell’uomo, che hanno in comune la caratteristica di riuscire a diminuire e in certi casi annullare le distanze tra esseri umani di tutto il globo. 

Il termine e il concetto nascono prima di tutto nel campo della economia degli scambi, e indicano in origine il rapido intensificarsi di un gran numero di scambi commerciali tra un numero sempre più alto di Paesi ed individui. Si può quindi affiancare la globalizzazione economica ad una rottura e ad un abbattimento delle barriere territoriali e giuridiche, ma anche, e soprattutto, ad un intenso progresso tecnologico che ha avuto, e sta avendo, una rapida crescita esponenziale. Il modello economico del sistema globalizzato è quello capitalistico-liberale occidentale, dominante dopo la fine del conflitto tra USA e Unione Sovietica (guerra fredda, 1947-1991), dove si è imposto a scapito del modello socialista centralizzato. Questo modello formava una “globalizzazione commerciale”, e, dopo essersi evoluto, ha dato origine alla “globalizzazione produttiva”. 

Le multinazionali e la delocalizzazione 

La causa di questo cambiamento, collocabile dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha come protagonista la nascita delle imprese multinazionali, che operano e controllano attività produttive e commerciali in diverse nazioni del globo, presenti in tutti i settori dell’economia mondiale, che hanno ottenuto negli anni un crescente peso nella produzione mondiale e, di conseguenza, nello sviluppo di molti Paesi relativamente poveri. 

Si tratta di imprese che hanno molto spesso sede in Paesi occidentali ricchi e industrializzati, ma che producono in altri territori che presentano molte facilitazioni dal punto di vista giuridico ed economico, non ultima una minore tassazione e tutela dei lavoratori, e quindi una maggiore “libertà” e convenienza da parte delle imprese. 

Quest’ultimo fenomeno è definito delocalizzazione, ed è attuato per ottimizzare la produttività ed incrementare il profitto spostando la produzione nelle fabbriche di Paesi come il Bangladesh, la Cina, il Vietnam o molti altri, spinto dal fatto che sono tutti accomunati da una debole e talvolta assente legislazione sui diritti dei lavoratori (per quanto riguarda salari minimi e condizioni di lavoro). È quindi evidente una stretta correlazione fra impossibilità di crescita dell’economia di molti Paesi e il continuo arricchirsi di imprese multinazionali che possiedono enormi capitali e vendono i loro prodotti a livello globale. Quello creatosi con le azioni e le scelte delle multinazionali, guidate dall’andamento del sistema capitalistico, è un meccanismo molto difficile da interrompere e migliorare; ciò grazie ad una continua e spietata concorrenza, che ha portato ad un apparentemente vantaggioso calo dei prezzi, che si traduce in un’impossibilità di emergere nel mercato globale per imprese che non vogliono adattarsi a queste dinamiche.

Il liberalismo antiprotezionista: lo sfruttamento della forza lavoro e i cambiamenti climatici

La nascita di una “bandiera economica” universale (massima espressione di un liberalismo antiprotezionista) ha radicalmente cambiato e incrementato l’offerta di beni in tutto il mondo. Oggi infatti possiamo comodamente acquistare prodotti alimentari e non solo che non sono producibili nel nostro Paese, provenienti dall’altra parte del mondo. Un fenomeno che ha portato, da un lato, una maggiore libertà di scelta e, se si vuole, una maggiore possibilità di avvicinarsi a tradizioni di Paesi stranieri, ma dall’altro ad una serie di importanti problematiche ambientali date dalle emissioni dei mezzi che percorrono le numerosissime rotte commerciali, lunghe centinaia di migliaia di chilometri. Per limitare il riscaldamento globale di 1,5°C (obiettivo individuato negli Accordi di Parigi del 2019), il pianeta dovrebbe eliminare 42 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 entro il 2050, ed è impensabile raggiungerlo continuando a mantenere queste dinamiche commerciali e, di conseguenza, le nostre abitudini relative alla domanda di beni provenienti dall’estero. La popolazione (prevalentemente quella dei Paesi industrializzati) del mondo globalizzato è infatti rappresentante della massima espressione del consumo di massa, figlia dell’evoluzione di quel processo chiamato produzione (che è poi diventata cultura) di massa verificatosi durante la seconda rivoluzione industriale avvenuta nell’ottocento e che ha caratterizzato tutte le dinamiche socio-economiche del novecento. 

Rimane quindi inevitabile sottolineare l’importanza delle multinazionali in questo fenomeno, che grazie ad un capillare utilizzo di innovative tecniche pubblicitarie (che trovano la loro massima espressione grazie alla nascita dei mass media), hanno col tempo creato bisogni fittizi (detti in psicologia “bisogni indotti”) che hanno lo scopo di aumentare ed influenzare la domanda, creando un sistema che porta ad uno sfruttamento dei lavoratori in Paesi in via di sviluppo.

Appare quindi inesorabile un continuo peggioramento della vita dei poveri quasi costretti (per assenza di altre possibilità) a lavorare nelle fabbriche delle multinazionali, sfruttati in condizioni disumane per produrre quantità sempre crescenti di beni che, dovendo avere un prezzo estremamente ridotto per causa dell’enorme richiesta e della feroce concorrenza, riducono il loro stipendio ad un valore neanche lontanamente sufficiente per una vita dignitosa. Un caso esemplare che sottolinea la disumanizzazione degli operai che producono beni che utilizziamo tutti i giorni è presentato dal crollo, nel 23 aprile del 2013, del Rana Plaza di Savar in Cambogia, un edificio che ospitava una fabbrica con circa 5000 dipendenti che lavoravano per numerose multinazionali, tra le quali anche la Benetton, Primark e Walmart, che per una mancata manutenzione e per una noncuranza degli evidenti segnali di degrado dell’edificio, collassò e provocò la morte di ben 1.129 operaie e operai. 

Una nota positiva

Sarebbe però irrealistico valutare le dinamiche e la realtà di un mondo globalizzato con un’accezione esclusivamente negativa e pessimistica. Infatti, analizzando i dati esposti nell’indagine, svolta nel 2015, della World Bank, che prendono in considerazione un periodo temporale che inizia nel 1990, anno in cui sorge il fenomeno della globalizzazione, risulta evidente la graduale diminuzione sia della povertà relativa, sia della povertà assoluta.

Va considerato però che l’accorciarsi della distanza fra le diverse economie ha portato ad una maggiore concorrenza mai vista prima nella storia dell’uomo, che ha avuto molteplici e opposte conseguenze per la popolazione: da un lato ha aumentato il reddito pro capite, quindi la ricchezza mondiale, permettendo a milioni di persone di avere maggiori opportunità potendo uscire dalla povertà assoluta, mentre dall’altro ha formato dei sistemi, creati dallo sfruttamento dei circuiti capitalistici, che hanno arricchito enormemente alcune imprese ed alcuni soggetti (come ad esempio banchieri e possessori di risorse come il petrolio o altre materie prime) a scapito di altri (come appunto i lavoratori nei Paesi poveri). 

Difatti al giorno d’oggi il 50% dell’intera ricchezza mondiale è nelle mani dell’1% della popolazione, e il 21,9% delle persone vivono con meno di 1,25$ al giorno (secondo i dati emersi dall Human development report, studio condotto dall’ONU nel 2014).

La globalizzazione: un fenomeno non solo economico 

L’analisi svolta fino a questo punto prende in considerazione le dinamiche globali quasi esclusivamente dal punto di vista economico, ma, come sorge spontaneo pensare, la globalizzazione ha stravolto a macchia d’olio tutti gli ambiti dell’essere umano. Dal punto di vista politico infatti, l’enorme potere acquisito dalle dinamiche di mercato, ha stravolto e talvolta surclassato quello delle istituzioni politiche. Basti pensare al fenomeno dell’ “esportazione della democrazia” attuato soprattutto dagli Stati Uniti, che consiste in diverse azioni di politica estera guidate da convenienze economiche, prevalentemente in ambito interventistico militare, mascherate sotto un pretesto politico (come, ad esempio, lo sconfiggere le dittature per sostituirle a sistemi “democratici” sotto l’indiretta influenza del governo americano). Esemplare anche il caso di altri Stati industrializzati, che ribaltano governi di Paesi, per istituire governi fantoccio al fine di sfruttare risorse naturali presenti in determinati territori, come ad esempio riserve petrolifere degli Stati arabi o il coltan (materiale fondamentale presente in quasi tutti i chip elettronici di tutti i dispositivi) presente in Congo. 

Verso una nuova forma di colonialismo: la McDonaldizzazione

Si può quindi azzardare la definizione di un neo-colonialismo, dove viene completamente trascurata l’identità di Paesi sottomessi e penalizzati; ciò avviene a vantaggio di un sistema economico governato da leggi auto-regolate che portano ad un continuo aumento della domanda da parte dei paesi occidentali industrializzati, con un conseguente aumento dello sfruttamento dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo.

Un fenomeno che, visto in ambito culturale, ha la caratteristica di appiattire e di standardizzare il globo in un modello, che sembra essere, come sorge spontaneo pensare, quello occidentale. Questa tendenza ad un modello omogeneo viene definita dalla sociologia “McDonaldizzazione” del mondo, che delinea quello scenario globale in cui la standardizzazione e la ripetibilità, insieme alla rapidità del consumo, caratterizzano la fruizione dei prodotti come delle conoscenze e delle idee.